Conservatori al potere, il referendum è per il cambiamento – di Gaetano Azzariti

da “il Manifesto” del 19 gennaio 2016
La strategia dei fautori della  riforma è chiara, enunciata senza mezzi  termini dal presidente del Consiglio: «da  una  parte ci saremo noi, il partito del cambiamento, dall’altra loro,  i difensori della casta, e gli italiani non avranno dubbi». Spetta agli oppositori decidere se accettare questo terreno di scontro avversando il nuovo  che  avanza in nome  di nobili principi calpestati, esponendosi però così all’accusa di conservatorismo; oppure valutare se vi siano  le forze  e la voglia  di cambiare registro, giocando la partita referendaria non in difesa, ma all’attacco. In primo  luogo  denunciando l’incapacità della  riforma costituzionale ad affrontare la grave situazione di crisi  dello  Stato costituzionale. Modifiche costituzionali che  risultano inadeguate poiché si pongono in forte continuità con quelle logiche regressive del passato — per  dirla  in sintesi, rafforzamento dell’esecutivo e svalutazione della  rappresentanza — che  ci hanno portato in questa situazione di crisi,  dalla  quale è necessario fuoriuscire.
È una  lotta dunque tra «noi, il partito del cambiamento e loro i difensori della  casta», per  riprendere le espressioni tranchant del Presidente del Consiglio, ovvero, più correttamente, una  battaglia contro i conservatori al potere.

Per  far passare nell’opinione pubblica questo messaggio di verità, nonostante l’evidente sproporzione di forze,  credo sia necessario non farsi  attrarre dalla  politica dell’illusionismo emotivo (fatta di slogan e rissa mediatica), per  provare a riflettere con serietà sui punti di caduta del nostro ordinamento costituzionale, concentrando la nostra attenzione sulle  fragilità della  democrazia contemporanea che  sono  all’origine della  crisi  politica, sociale e morale del paese.
Due le questioni da porre al centro del dibattito. Da un lato,  il tema della  crisi  del ruolo  del parlamento, privato della  sua  essenza e del suo valore; dall’altro, il problema della  rappresentanza politica, svuotata dalla  distanza sempre più preoccupante tra governati e governanti.
La domanda da porre allora è la seguente: la riforma costituzionale riesce ad invertire la rotta, a dare nuovo  impulso alle due  questioni indicate sulle  quali  si regge la democrazia pluralista, oppure continua a farci  restare nel pantano?

Iniziamo dal parlamento. Si è modificato il bicameralismo perfetto. Bene.  Ma veramente si pensa — o si vuol far credere — che  i mali del parlamentarismo si possono affrontare passando dal bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso com’è quello  che  è stato immaginato? Ci si può veramente illudere che  la crisi  del regime parlamentare si possa affrontare intervenendo solo sulla redistribuzione delle  funzioni e sulla  composizione delle  due  camere, non considerando per  nulla  le ragioni strutturali che  sono  alla base dello  svuotamento del potere parlamentare?
Bisogna essere più radicali. È la forma  di governo parlamentare che  deve  essere ripensata, oggi in sofferenza a causa dello  squilibrio nei rapporti tra governo e parlamento, sbilanciamento a favore del primo  e a scapito del secondo. Il saggio revisore, il vero  innovatore, anziché favorire l’involuzione rafforzando i poteri dell’esecutivo e comprimendo ulteriormente quelli  del legislativo, dovrebbe fare  esattamente  l’inverso. Bisognerebbe limitare e regolare lo strapotere del governo in parlamento, intervenendo sul profluvio ingiustificato di richieste di fiducia, sulla  decretazione d’urgenza, sui maxiemendamenti, che  umiliano l’autonomia del parlamento e dei parlamentari; si dovrebbero riscrivere i regolamenti, per  regolare il dibattito parlamentare ed evitare i tempi contingentati che  impediscono il confronto; sarebbe necessario assegnare alle opposizioni uno statuto ben  definito e di garanzia, ostacolando così le pratiche ostruzionistiche a volte impropriamente utilizzate; appare urgente intervenire sull’organizzazione dei lavori  per  ridefinire il rapporto tra commissioni e aula, ricollocando al centro le commissioni — vero  luogo  di approfondimento e libera discussione — rispetto all’aula che  ormai non rappresenta altro che  un teatro della  divisione, raffigurazione vuota  e solo spettacolare del nostro organo parlamentare e dei nostri — spesso scalmanati — rappresentanti.

Certo si dovrebbe intervenire anche sulla  struttura bicamerale. Ma — nella  prospettiva del rilancio del parlamentarismo — bisognerebbe essere ben  più radicali e coerenti. Tentare di riunificare la sovranità della  rappresentanza popolare: un unica camera eletta con un sistema proporzionale. Chi se la sente di proporre una  riforma rivoluzionaria come  questa? Eppure in passato era  proprio questa la frontiera più avanzata della  sinistra. Poi la sinistra è evaporata e le frontiere sono  state aperte, scomparse dalla  topografia politica.

Rispetto alla gravità della  crisi  del parlamento come  ha operato il nostro revisore costituzionale? Per dirla  in sintesi: non ha scelto nessun modello e ha approfittato della  confusione per  acquisire un po’ di potere in più a favore di chi attualmente — ma solo pro tempore — lo detiene, favorendo il processo regressivo in atto.
Che non abbia scelto nessun modello appare chiaro se si guarda a come  ha differenziato  il bicameralismo. Nulla  ha toccato con riferimento alla camera dei deputati, lasciando tutti i vizi che attualmente la attraversano; rendendo invece il cenato un Ufo, un oggetto non identificabile per struttura, funzioni, composizione. Poteva scommettere sul rilancio del regionalismo italiano e invece ha svuotato le competenze e i poteri degli  enti  territoriali. Si è proposto l’obiettivo di semplificare il procedimento di formazione delle  leggi  ritenuto, non a torto, troppo farraginoso nel sistema attuale di bicameralismo perfetto, ed è riuscito nel capolavoro di passare da uno a dieci  distinti iter, aprendo la strada al moltiplicarsi dei ricorsi alla Corte costituzionale, rendendo ancor più complesso far leggi in Italia. Ha adottato, infine,  un non-criterio di composizione dell’organo. Come  altro può definirsi, infatti, il compromesso (si fa per  dire)  definito all’art. 57 che  prima introduce il principio dell’elezione indiretta dei senatori da parte dei consigli regionali, per  poi smentire se stesso, assegnando la scelta, con formula in realtà anodina, agli elettori, rinviando poi tutto ad una  futura legge bicamerale.

Ma, al di là delle  critiche puntuali, delle  improprietà tecniche, quel  che  mi preme sottolineare è il dato  di fondo:  questa riforma non è adeguata alla reale problematicità della  crisi  in atto, non ridarà dignità al parlamento, né è il frutto di una  buona politica costituzionale.
Essa  rappresenta, in continuità con il passato, un ulteriore passo verso la sclerosi del sistema parlamentare. C’è bisogno di altro in Italia. C’è bisogno di qualcuno che  ridia  speranza al futuro del parlamentarismo, rilanciando le sue  ragioni, ponendosi al passo con i tempi, non abbandonandosi invece ad un triste declino d’addio.

Non basta. Non avremo un sistema parlamentare funzionante in Italia se non saremmo in grado di affrontare con spirito veramente innovativo anche la collegata questione della  rappresentanza politica.
Come  si può infatti pensare di porre al centro un parlamento se questo dovesse continuare ad essere composto solo da anime morte? Rappresentanti i cui legami con la realtà del rappresentato appaiono sempre più compromessi.
Una democrazia rappresentativa sconvolta da un sistema elettorale, che  — in forte continuità con il passato — rende sempre più sfumato il rapporto tra chi vota  e chi è eletto. Ma deve  essere anche detto che  la crisi  della  rappresentanza non è solo determinata da una  brutta legge elettorale. Se si vuole  prospettare un reale cambiamento si deve  alzare lo sguardo per  denunciare la progressiva autoreferenzialità della  politica, il coma  profondo in cui sono  caduti i corpi  intermedi, il sonno delle formazioni sociali, dei partiti in specie, la progressiva verticalizzazione di tutti i poteri, l’inaridirsi e il burocratizzarsi dei canali della  partecipazione, la chiusura degli  spazi  politici. È del fallimento della  democrazia maggioritaria che  dovremmo parlare.

Allargo  troppo il discorso, ma a forza  di semplificare siamo  arrivati alla politica dei tweet, alla Repubblica delle  slide,  alla richiesta di plebisciti di carattere fiduciario e personale su questioni che coinvolgono la qualità della  nostra democrazia. Dovremmo tornare a porci  i problemi di governo delle democrazia pluraliste nella  loro reale complessità. Per  fuoriuscire dal lungo  regresso e tornare a parlare al futuro. Il referendum costituzionale ne sarà l’occasione?

Gaetano Azzariti
19. 01. 2016

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