Napolitano a Ravenna: prolusione di Sauro Mattarelli

Signor Presidente della Repubblica, autorità, cittadine e cittadini, è un onore questa visita, proprio all’inizio dell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo anniversario  dell’Unità d’Italia. Siamo fieri e orgogliosi che il Presidente della Repubblica italiana sia con noi nel ricordo del contributo che Ravenna, la Romagna e l’intera Regione, all’insegna del tricolore,  hanno offerto per questa grande causa fin dal primo Risorgimento, quando repubblicani, liberali, mazziniani ed anche esponenti del mondo cattolico, pur con le dovute differenziazioni, hanno partecipato in modo decisivo ai moti da cui si sarebbe costruito il processo unitario nazionale.

Basti pensare alla cosiddetta  Trafila,  che consentì a Garibaldi di porsi in salvo nel 1849 e, in seguito, di consolidare un rapporto speciale con i luoghi dove Anita aveva sì cessato di vivere, ma era entrata nei cuori di tutti, segnando per sempre  l’immaginario collettivo. Poi le gesta dei cospiratori, le persecuzioni, le repressioni e un pensiero che tuttavia continuava a svilupparsi e a trasformarsi in convinzione.  Le vicende dei vari Domenico e Luigi Carlo Farini, Primo Uccellini, Francesco Lovatelli, Antonio Monghini… non sono che i capisaldi più noti di una storia che coinvolse vasti strati popolari e che, perciò, vive ancora oggi non solo attraverso la storiografia, ma nel ricordo di momenti divenuti simbolici e che ci hanno trasmesso il senso della partecipazione politica, della costanza, della speranza, delle modalità con cui ci si confronta, anche duramente.

Nella città che ospitò Dante il Risorgimento è dunque sì memoria, coltivata perfino attraverso riti che potremmo definire liturgici; mai, però, ricordo polveroso o mummificato; ma storia sempre viva al punto da farsi tradizione,  come quella dei lumini che ogni notte del 9 febbraio, in alcune plaghe ravennati,  ricordano, ancora oggi, l’evento della Repubblica Romana del 1849, che, tra l’altro, regalò all’Europa una Costituzione avanzatissima, che ha ispirato profondamente anche la nostra Carta costituzionale. Molti illustri uomini politici del secondo dopoguerra, da Palmiro Togliatti  a Pietro Nenni fino a Randolfo Pacciardi,  Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini  e, signor Presidente,  anche al suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, furono  molto impressionati  e commossi da un rito entrato profondamente nel nostro costume.

Questi eventi non sono però riconducibili alle categorie del mito o del folklore:  dagli “alberi della libertà”  sorsero le prime leghe;  gruppi anarchici, radicali e socialisti avrebbero  dato vita ad esperienze partecipative che costituiscono un “unicum”; da qui nacquero i partiti politici che facevano riferimento  al socialismo costiano, al repubblicanesimo di Aurelio  Saffi, al liberalismo di Luigi Carlo Farini,  Alfredo Baccarini,  Luigi Rava. E poi le cooperative  socialiste  di Nullo Baldini; le mazziniane di Pietro Bondi e, più tardi, quelle cattoliche, quelle comuniste e, ancora: le banche popolari, le casse mutue, i giornali, i sindacati, le associazioni… avrebbero costellato il territorio, connotandolo e imprimendogli una fisionomia geopolitica ben definita.

Fu così che una terra di contadini, braccianti, piccoli e grandi proprietari,  ai primi del Novecento, raggiunse un primato agricolo che il mondo  invidiò e che derivava essenzialmente, non solo da parole o da ideologie,  ma da una organizzazione concreta, da  comportamenti consolidati; dal fatto che uomini e donne, spesso provenienti da terre lontane, appresero a rispettarsi,   parlarsi e,  lavorando fianco a fianco,  a liberarsi delle acque paludose, della malaria, ma, soprattutto, della cappa del servilismo.

L’antifascismo e la Resistenza ravennati scaturirono da queste radici: non nacquero tanto o  solo per opporsi a un nemico, ma per conseguenza naturale del fatto che qui si era intesa la libertà  come un insieme di rapporti fondati sulla responsabilità; praticati attraverso la consapevolezza di un dovere compiuto, prima ancora che di un diritto, seppur sacrosanto, da rivendicare.

 La libertà era, cioè, un prerequisito; un mezzo, non un fine e, lo aveva insegnato Mazzini,  non poteva perciò  sfociare nella licenza o nella sopraffazione del forte sul debole. Era considerata uno strumento  per crescere, non a scapito degli altri, ma come collettività e  civiltà: riformando e migliorando attraverso la conoscenza, lo studio, l’operosità e anche col  sanguigno rifiuto delle angherie che un po’  ha connotato le nostre plaghe.

Per questo motivo Ravenna, insignita da Luigi Einaudi città medaglia d’oro della Resistenza, ha riconosciuto  la dignità di tutti coloro che si fronteggiarono e si combatterono negli anni del cosiddetto Secondo Risorgimento: non senza traversie, contrasti e, purtroppo, anche gravi fatti di sangue. Ma senza,  d’altro canto, rinunciare al dovere  della distinzione storica e morale tra chi combatteva e moriva per i valori che oggi dovrebbero costituire il fondamento della nostra Repubblica democratica espressi nella Costituzione (che, come si diceva,  proprio dalla lezione dell’Ottocento ha tratto la sua ispirazione più autentica) e coloro che invece si batterono facendo riferimento a ideologie opposte, illiberali, basate sulla discriminazione razziale, sessista, religiosa.

In altri termini: l’Unità della Patria, che qui si è sempre  celebrata e declinata in senso repubblicano, per questa gente non ha voluto dire indistinta commistione o amalgama; né ha riguardato solo una pura questione di annessioni territoriali. Nasce, piuttosto, dalla  fiera consapevolezza che, almeno in un certo periodo storico, nella antica Capitale   che, per usare la definizione di Antonio Beltramelli, sorgeva nella “terra degli uomini rossi” e che Gabriele D’Annunzio chiamò invece “la città del silenzio”… furono in tanti a individuare nel lavoro l’elemento fondante  di ogni unione, attraverso l’espressione della dignità umana; prima ancora che mezzo per percepire un reddito.

Proprio per questo  in molti seppero  praticare la “filosofia dell’Unità”, che si basa sul disinteresse;  sulla possibilità di darsi regole condivise perché riguardano  il bene comune; sul saper rinunciare ai piccoli o grandi privilegi  di casta, di censo o “di posizione” in nome di qualcosa di più alto:  la coesione, ad esempio, che nasce dal comunicare,  dal modo di comportarsi, dal  riconoscersi,  fino poter a percepire, anche attraverso una piccola enclave come la  Romagna, il senso di una intera Nazione, dell’Europa, del  naturale e ineludibile incontro fra tutti gli uomini e tutti i popoli, pur se profondamente diversi;  anzi nella coscienza della ricchezza implicita nel concetto di diversità.  

In questa terra di grandi tradizioni democratiche, lo dimostrano anche i dati del Referendum del 2 giugno del 1946 o quelli della partecipazione alle consultazioni elettorali sia locali, sia nazionali, sia soprattutto europee, si è cercato, da oltre centocinquant’anni, di praticare  la giustizia sociale. Non solo come antidoto contro la miseria,  ma, ancor prima,  come mezzo per riscattarsi dall’analfabetismo (politico oltre che culturale); nella consapevolezza che tale piaga,  rappresenta l’anticamera della schiavitù peggiore: quella che “si ignora”, come diceva Ignazio Silone, e rischia di veicolare un pericoloso “virus del dominio”  che (amava ricordarlo Danilo Dolci), se utilizzato spregiudicatamente, può condurre verso la istituzionalizzazione  della solitudine, della paura, della rassegnazione, dell’apatia, dell’egoismo, della disgregazione sociale… che sono il veleno peggiore per ogni comunità e Repubblica degna di questo nome.

La storia di Ravenna  possiede dunque la forza, quasi religiosa (non a caso André Frossard parlò di uno speciale “Vangelo”) , di coniugare il passato con l’avvenire e con la costruzione del futuro. Amiamo credere che possa svolgere, ancora oggi, una sua funzione pedagogica, a condizione che non divenga una litania e che non sia proposta come una nozione arida, nostalgica, volta a farci specchiare sui fasti del passato. È questo d’altronde il monito che proviene le lezioni di grandi amministratori locali: da Fortunato Buzzi a Bruno Benelli; da Luciano Cavalcoli a Pier Paolo D’Attorre. È una storia che ci parla di ideali, traducibili in fatti concreti,  che stanno alla base della crescita e della convivenza civile.

Forse  possiamo ancora far  vivere questi principi nel cuore dei giovani del nuovo Millennio con lo stesso spirito con cui  sbocciarono nell’animo delle giovani generazioni di centocinquanta anni fa: all’insegna dell’amore verso il progresso, del diritto alla speranza;  e col senso di rivolta contro i venditori di illusioni,  le letargie, i dispotismi, i soprusi. Un fremito, insomma, un impegno, che però non può essere imposto, né studiato a memoria come fosse un mantra.   Questi valori non possiamo infatti sperare di trovarli  tutti racchiusi nei libri, o depositati nelle “coscienze individuali” e neppure nella pur spesso invocata “volontà popolare”.

L’esperienza storica insegna  che solo un esercizio metodico, umile, condiviso di sintesi consapevole  di tutte queste componenti  può donarci la linfa essenziale per crescere, affrontare le sfide globali e, soprattutto, evitare una frattura insanabile tra ciò che si insegna e ciò che si pratica; tra le nostre parole e le nostre azioni. Questa dicotomia, è il male oscuro che spesso si insinua fra i banchi delle scuole, delle università e della politica; nei posti di lavoro; tra disoccupati e precari;  ed è lo stesso male che, a pensarci bene, in nome di un falso utilitarismo,  oggi, talvolta,  porta cinicamente a irridere con sufficienza la storia del Risorgimento del nostro Paese, fino a banalizzarla, denigrarla dimenticarla nel silenzio indulgente e complice di chi preferisce “verità” che durano il tempo di uno spot e possono essere scritte, riscritte e rigirate a piacimento. 

Ricomporre la frattura tra il passato e la costruzione dell’avvenire; tra le parole e le azioni: credo sia il messaggio più importante che viene da centocinquanta anni di  storia della nostra terra e che ora consegniamo alle giovani generazioni e simbolicamente a lei, signor Presidente,  come parte integrante, inscindibile  e ineludibile della storia d’Italia.

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