I rischi del nuovo Senato di Alessandro Pace

da “Repubblica” del 12 marzo 2015

I RISCHI DEL NUOVO SENATO

di Alessandro Pace

Con il voto favorevole della Camera dei deputati sugli articoli relativi alla composizione e alla modalità di elezione del Senato contenuti nel disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi (di seguito d.d.l.), il destino della seconda camera sembrerebbe bell’e segnato. La Camera, su quei due punti, non si è infatti discostata da quanto approvato dal Senato in prima lettura. E quindi il Senato, a questo punto, potrebbe nuovamente modificare solo gli articoli nei quali la Camera si era, a sua volta, discostata dal Senato. Le leggi di revisione costituzionale sono infatti adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni, sull’identico testo, a distanza non minore di tre mesi.
Pertanto, a meno che il d.d.l. Renzi-Boschi non incontri imprevisti ostacoli politici, come ebbe inopinatamente ad incontrarli nel 2013 il d.d.l. Letta, l’unica via praticabile per ridare legittimità al Senato è quella, futura, di sottoporre alla Corte costituzionale la decisione circa la legittimità costituzionale dell’articolo 57 della (eventuale) legge costituzionale Renzi-Boschi, in considerazione del suo grave vizio di costituzionalità, di escludere i cittadini dall’elezione dei senatori, nonostante «il voto (…) costituisc(a) il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare», come ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014 sul Porcellum. Un principio desumibile dall’articolo 1 della nostra Costituzione, che pacificamente costituisce uno dei “principi costituzionali supremi” che nemmeno una legge di revisione può modificare.
Per cui, quando un giudice, a riforma costituzionale avvenuta, si trovasse a dover applicare una legge approvata anche dal Senato, potrebbe sollevare dinanzi alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità di tale legge perché votata, oltre che dalla Camera, da un Senato eletto da soggetti (i consiglieri regionali e provinciali) che, secondo la Costituzione, non avrebbero il potere di farlo.
Infatti, mentre è discutibile l’attribuzione al Presidente della Repubblica della nomina per soli sette anni di cinque senatori che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti» (i senatori “del” Presidente?), l’elezione dei restanti 95 Senatori è ancor più discutibile: 1) perché la funzione di revisione costituzionale e la funzione legislativa verrebbe esercitata da soggetti non eletti dal popolo e quindi non responsabili nei confronti del popolo; 2) perché è scandaloso il poco tempo dedicato alle funzioni senatoriali da parte di soggetti che dovrebbero nel contempo svolgere anche le funzioni di consigliere o di sindaco; 3) perché è stato francamente inopportuno “promuovere” i consigli regionali e provinciali a collegi elettorali dopo tutti gli scandali che anche di recente hanno caratterizzato i consigli regionali.
E’ quindi francamente difficile comprendere la ratio di questa scelta, a meno di non pensar male, e di ritenere che, anche sotto questo profilo, Renzi, in quanto segretario del PD, abbia voluto riservarsi un potere d’influenza sulle segreterie locali e sulle candidature, che egli non avrebbe avuto qualora fossero stati i cittadini ad eleggere i senatori.
Ed è difficile comprenderne la ratio, anche perché l’esperienza sia tedesca che francese, talvolta richiamata a sproposito, non può essere portata ad esempio.
Non l’esperienza tedesca del Bundesrat per la semplice ragione che, come già da me ricordato su queste pagine il 18 novembre scorso, gli ordinamenti federali succedutisi dal 1871 in poi – con la parentesi del nazismo – non hanno mai cancellato le preesistenti identità storico-istituzionali, come invece fece il Regno d’Italia con l’unificazione amministrativa del 1865. I Länder non sono quindi i Grandi elettori eletti dai cittadini tedeschi a tal fine, ma sono i componenti del Bundesrat e, in quanto tali, sono titolari di diritti “propri” esercitati dai rispettivi governi: i quali hanno a disposizione da un minimo di 3 ad un massimo di 6 voti per ogni deliberazione.
Né può richiamarsi l’esperienza dell’elezione “indiretta” del Senato francese, per tre diverse ragioni. In primo luogo, perché, nonostante quel che si legge nella stampa, l’elezione del Senato italiano non sarebbe “indiretta” da parte del popolo, perché i Consigli regionali continuerebbero ad essere eletti per svolgere le normali competenze legislative e di controllo loro spettanti, e non allo specifico scopo di eleggere i senatori, come se fossero dei Grandi elettori. La seconda ragione è che – ammesso, ma non concesso, che le elezioni senatoriali italiane sarebbero indirette – mentre l’art. 2 della Costituzione francese espressamente statuisce che il suffragio elettorale può essere anche “indiretto”, ciò non è previsto dalla nostra Costituzione.
Infine, mentre le elezioni senatoriali francesi sono “vere” elezioni che coinvolgono circa 150.000 Grandi elettori nella persona di deputati, consiglieri regionali, consiglieri generali e delegati dei consiglieri municipali, in Italia i consiglieri regionali e provinciali – che, lo ribadisco, non sarebbero Grandi elettori – sarebbero poco più di mille in 21 sezioni elettorali di poche decine di persone: sarebbero designazioni tra colleghi, non elezioni serie.

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